L’avvento dell’attuale pandemia ha catalizzato il processo di digital disruption dei flussi commerciali e mediatici dell’intero comparto moda.

Se eravamo abituati all’idea di un’entrata soft di soluzioni tecnologiche nel settore, ora, la situazione è decisamente cambiata: la creazione e la distribuzione di ogni tipo di contenuto oltre che, le dinamiche trade, hanno infatti subito un completo stravolgimento.

A cambiare completamente è il sistema di decision making su cui si è sempre fondato il fashion system, fatto di sfilate, showroom e fiere.

Da essere imperatrici di un’industria multi-miliardaria, le aziende di moda e a seguire quelle di distribuzione retail, si sono trovate a temere il tracollo finanziario a causa delle difficoltà dei buyers di viaggiare.

I business trip degli addetti ai lavori che hanno sempre caratterizzato questo genere di professione, quasi come fosse il fattore carry-over” fondamentale per far funzionare il settore, hanno subito una drastica diminuzione. Com’è possibile, non viaggiando, o viaggiando meno, vedere le collezioni live durante le sfilate, visitare showroom, fiere e, in generale, presenziare a tutti i maggiori eventi di presentazione?

Il monitor Altagamma sui mercati mondiali, realizzato da Bain & Company, prevede, a tal proposito, un calo del fatturato del 20% per le aziende di moda operanti nel lusso per l’anno 2020.

Per reagire a questa emergenza, sarò necessario intraprendere in tempi brevissimi decisioni coraggiose che comporteranno l’affermazione di nuovi modelli di business nell’organizzazione degli eventi.

C’è una impellente necessità di trovare soluzioni per garantire la possibilità di visionare i capi e i campionari ai buyers e ai giornalisti di settore, anche senza la loro presenza fisica. 

Che fine faranno i fashion show?

Teatri di eventi unici, palcoscenici di spettacolarità, trampolini di lancio per modelli e modelle, i fashion show dovranno essere totalmente ripensati per poter continuare a garantire la tenuta del sistema.

L’alternativa esiste ed è offerta proprio dalla tecnologia e dalla sua capacità di essere multi-tasking e multi-forme.

Il curioso caso delle modelle che non esistono ma che stanno rubando il lavoro a quelle reali

Se nella fase pre-covid si guardava all’utilizzo di tecnologie digitali per sperimentare la creazione e distribuzione di contenuti innovativi nel mondo fashion, ora sarà impossibile fare a meno di soluzioni tecnologiche come l’augmented reality (AR), la virtual reality (VR), gli ologrammi, l’internet of things (IoT) e l’intelligenza artificiale (AI).

L’utilizzo di queste tecnologie porterà all’affermazione di nuovi modelli di business e ad accettare nuovi format di fruizione che provocheranno necessariamente il ripensamento di alcune figure, così come sta già succedendo a quella delle modelle.

Il passaggio dalle modelle reali a quelle digitali è già stato sancito nel numero di Vogue Italia di marzo, con le creazioni fotografiche del duo Mert and Marcus con le loro modelle Ida, Teresa, Helga, Anastasia and Stevie, impressionanti per le loro fisicità così realistiche.

Cugine delle modelle virtuali, sono poi le influencer virtuali, come Lil Miquela, caso unico di una modella bot che chiaramente non esiste ma che vanta un account Instagram da 2,3 milioni di follower.

Immagine della virtual influencer Lil Miquela
Fonte: Instagram lilmiquela

E se ancora non è sufficiente, oltre alle modelle, diventano influencer virtuali anche gli avatar.

E’ il caso di Noonoouri, avatar virtuale che unisce tratti manga a riferimenti alle opere artistiche della pittrice americana Margaret Keane.

Noonoouri dimostra come un prodotto digitale possa diventare pura realtà, con tanto di ingaggio da IMG Models e contratti con i brand più importanti, tra cui Versace, Dior e Valentino.

Immagine di un post di Noonoouri per Versace e immagine di un dipinto di Margaret Keane
A sx. Fonte: Instagram noonoouri. A dx: https://bit.ly/3eqzcUk

Insomma, le care, belle ma ormai obsolete modelle, con patrimoni stellari, dovranno inaspettatamente arrangiarsi e finiranno probabilmente in cassa integrazione (siamo ironiche, chiaramente).

Alcuni innovatori cutting-edge nel fashion

Dalle modelle agli abiti il passo è breve, come dimostra il progetto della fashion house olandese The Fabricant con il digital clothing only.

Immagine di capo digitalizzato realizzato da The Fabricant
Fonte: sito web The Fabricant

La mission di The Fabricant è la creazione di capi virtuali che possono essere commercializzati secondo un’ottica touchless.

Dagli echi sci-fi sono invece le sperimentazioni della designer olandese Anouk Wipprecht,
innovatrice indiscussa nel campo del Fashion Tech.

Anouk riesce a far dialogare ed interagire ingegneria, scienza e user experience realizzando capi di technological couture, che, attraverso sistemi di intelligenza artificiale e sensori, sono perfino in grado di controllare i livelli di stress e comfort provati dalla persona che indossa l’abito.

Immagine di abiti digitali realizzati da Anouk Wipprecht
Fonte: sito web Anouk Wipprecht

Le ricerche di Anouk Wipprecht portano la costruzione di vestiti nei territori inesplorati dell’avanguardia, con brand come Intel, Audi e Swarovski già pronti a finanziare la realizzazione di nuove creazioni a portata di guardaroba del futuro.

Anche il cinema accorre in soccorso della moda con la tecnologia CGI (computer generated imaginary) che consente di ricreare qualsiasi tipo di location sia necessaria alla sfilata.

Ermenegildo Zegna sta sperimentando questa soluzione che prevede la creazione di uno spazio phygital: in parte fisico e in parte digitale. Si tratta di un vero e proprio film digitale in cui modelle e modelli sfilano in uno spazio vuoto che viene ridisegnato virtualmente sulla base delle indicazioni dello stilista.

Questa alternativa consente agli stilisti di poter ricreare una coerenza tematica tra la sfilata e l’ambiente circostante, proponendo una reinvenzione dei fashion show.

Secondo Matthew Drinkwater, capo della Fashion Innovation Agency presso la London College of Fashion, i brand non hanno altra scelta: se vogliono sopravvivere, devono interrompere gli show live e convertirsi al digitale. 

Immagine del progetto firmato Martine Jarlgaard London in collaborazione con la Fashion Innovation Agency
Fonte: sito web FIA – Progetto di Martine Jarlgaard London

Non ci sono ormai più dubbi quindi sul mix tra le realtà fisica e virtuale, come dimostrato anche dalla Fashion Week che si terrà a giugno a Londra.
Come si apprende dal comunicato della British Fashion Council, la Fashion Week sarà visibile in anteprima agli addetti ai lavori e a tutti i comuni appassionati di moda, all’interno di uno spazio digitale A-GENDER, rendendo democratica la fruizione delle sfilate.

Allo stesso modo, la Camera Nazionale della Moda Italiana presenterà per la prima volta le collezioni uomo primavera/estate 2021 e le pre-collezioni uomo e donna primavera/estate 2021, all’interno di un calendario digitale, sui canali social dell’ente.

Comunicato della Camera Nazionale della Moda Italiana
Fonte: Instagram cameramoda

Il progetto della CNMI prevede una piattaforma digitale con webinars di approfondimento su tematiche dedicate agli operatori del settore (su accredito), lectio magistralis in live streaming con figure di spicco del fashion system e momenti di intrattenimento/live performance da parte dei creativi. Inoltre, una sezione della piattaforma sarà interamente dedicata agli showroom, con l’intento di costruire una proposta inclusiva dei grandi brand del Made in Italy e allo stesso tempo supportare la nuova generazione di designer emergenti. Anche Instagram sosterrà il progetto dando la possibilità di guardare le sfilate e di vivere digitalmente l’esperienza di shopping per esempio offrendo la possibilità di taggare i prodotti durante i video.

Le numerose azioni messe in atto da enti pubblici e brand dimostrano che questo è un passaggio epocale per la trasformazione digitale nel settore fashion.

Il processo di digitalizzazione della moda non è una tendenza che diventerà obsoleta tra qualche stagione, ma si tratta ormai di una realtà incontrovertibile.

Il fashion diventerà sempre più on-life, riprendendo una celebre espressione del filosofo Luciano Flori.

Stories a go-go

Probabilmente sarà possibile aspettarsi nel breve termine una maggiore collaborazione tra brand e social network.

Il format “stories”, così utilizzato su Instagram e Facebook, potrebbe essere utilizzato dai brand del luxury per la creazione di esclusive gift animate, filtri e abiti virtuali sovrapponibili, rendendo apparentemente più democratica la moda e favorendo l’awareness delle aziende.

Si potrebbero vedere ragazze che pubblicano stories indossando abiti virtuali esclusivi o accessori oggetti del desiderio.

Quanto potrebbe aumentare la popolarità di pezzi iconici di Vuitton o Hermés se fosse possibile inserirli in una foto per una storia?

Ma se da una parte c’è un’opportunità, dall’altra c’è un grafico excel con il flusso di cassa.

Infatti, uno dei problemi rappresentati da questa digitalizzazione forzata è nei costi da sostenere per i nuovi brand.

Come potranno farsi conoscere giovani stilisti se ormai l’universo social per crescere in popolarità è a pagamento?

Si rischia di favorire alcuni brand rispetto ad altri che diventerebbero appannaggio solo di appassionati cercatori di novità.

E’ tempo di considerazioni

Se è vero che ormai tutti conviviamo con il nostro dark side virtuale, bisogna però dire che le esperienze più significative sono quelle che coinvolgono tutti i nostri sensi.

La morbidezza del cachemire o di un delicatissimo pellame difficilmente sarà resa in modo adeguato dalla dimensione virtuale, dove, le abilità grafiche nella sistemazione dei filtri, possono ingannare sulle qualità realizzative di un capo, ma, lasceranno sempre scoperta l’esperienza tattile.

È vero che la realizzazione e distribuzione dei contenuti nel mondo del fashion show vedrà sempre più l’affermazione del digitale, ma, di certo, il “tocco” degli abiti non potrà mai essere completamente soppiantato dal codice binario fatto di 0 e 1.

Nessuna influencer, nemmeno la più amata di tutte, che sia in carne e ossa o su schermo, potrà mai restituire al brand l’autenticità di prodotti e delle sensazioni che genera l’indosso.

Plausibile pensare ad un aumento del divario tra fruizione svelta del capo e godimento lento dello stesso.

A fronte di un’ipotetica democratizzazione delle tecnologie che permetteranno ad un brand emergente di pubblicizzare i propri prodotti affrontando una tantum l’investimento nel digitale, ci sarà sempre una contro-parte che prediligerà il pregio manifatturiero e che vedrà nella fruizione unicamente digitale uno svilimento valoriale.

Il vero lusso andrà nella direzione della lentezza, a cominciare dall’artigianalità sapiente con la quale si realizzano capi di pregio, a finire ai buyer che “dovranno” continuare ad affrontare i tanto cari e spesati business trip.

La vera sfida del lusso per non soccombere allo strapotere del digitale risiederà proprio nella capacità di valorizzare la manifattura artigianale per preservare la propria credibilità.

Un occhio di riguardo va anche al mondo del gaming, ormai vero e proprio medium di massa. Probabilmente in futuro i fashion designer realizzeranno collezioni esclusive per i videogiochi più amati, rendendo l’integrazione phygital sempre più stretta. Burberry, in questo contesto, si sta già mostrando pioniera, con il lancio di B Bounce, videogame online o fruibile sui mega screen del flagship store di Regent Street a Londra, lanciato per promuovere una nuova collezione. Segue Prada, con il suo Prada Journey , un video game, che sarà lanciato a breve, ideato per aumentare le opportunità di coinvolgimento con i clienti. 

In ogni caso, la strada è già pronta, basti pensare a giochi dall’incredibile successo planetario come Fortnite che già offrono ai loro giocatori l’opportunità di acquistare abiti e accessori virtuali per rendere l’esperienza di gioco personalizzata.

L’importante per i brand sarà non fare la fine di Roy Batty, il famoso replicante di “Blade runner”, con tanti abiti e sfilate “perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.”

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